Milano, 14 agosto 2020. Cinque anni fa, il 14 agosto 2015, moriva a Milano Gianfranco Maris, storico presidente dell’ANED e della Fondazione Memoria della Deportazione.
Anche quest’anno la Fondazione Memoria della Deportazione lo vuole ricordare con le sue parole.
Gianfranco Maris fu avvocato di parte civile al processo contro il capitano delle SS Theodor Saevecke, responsabile dell’eccidio di piazzale Loreto (Milano, 10 agosto 1944). Il processo si svolse tra 1998 e 1999 e si chiuse con la condanna all’ergastolo per il capitano nazista con sentenza del 9 giugno 1999 del Tribunale Militare di Torino.
Arrigo Boldrini, presidente dell’Anpi nazionale, a processo ultimato, il 23 giugno 1999, scrisse a Maris ringraziandolo e precisando:
La sentenza del tribunale è di grande valore morale e civile. Essa, infatti, come tu hai sottolineato nell’Aula del tribunale, afferma «una linea di condotta etica, che gli uomini devono avere in qualsiasi situazione di vita, in guerra come in pace, nel proprio Paese come in qualsiasi altro Paese». Siamo grati della tua sensibilità e lieti per il successo ottenuto.
Arrigo Boldrini
Riproponiamo qui una riflessione di Maris a seguito del processo, che fu pubblicata su «Anpi Oggi», anno X, n. 8, agosto 1999, pp. 5-8 [I sottotitoli, indicati tra parentesi, sono nostri].
Il valore di una sentenza
I delitti contro l’umanità vanno sempre puniti in ogni tempo e luogo
[Obbligatorietà dell’azione penale]
Cari amici e cari compagni, vorrei partire da una premessa: un paese non è civile se non ha, tra i principi fondamentali che regolano la sua convivenza l’obbligatorietà della promozione dell’azione penale, perché i delitti siano sempre puniti, in ogni tempo ed in ogni luogo.
La Costituzione, che pone le regole fondamentali della nostra convivenza civile, stabilisce che l’azione penale è obbligatoria.
Con riferimento ai delitti contro l’umanità commessi nel tempo dell’occupazione nazista dell’Italia, questa legge fondamentale non è stata rispettata.
Anzi, ora sappiamo, per il rapporto che il Consiglio della magistratura militare ha pubblicato di recente, che tremila faldoni che contenevano le notizie dei delitti commessi nel tempo dell’occupazione nazista in Italia, sono stati occultati nell’archivio del Tribunale Supremo Militare in Roma, in un grande armadio con le ante rivolte verso il muro.
Subito dopo la guerra, la Commissione francese per la repressione dei delitti dei nazisti, commissionò ad Alain Resnais Notte e Nebbia, che venne mandato a Cannes nel 1956 ma che subito fu ritirato per interventi diplomatici. Questo cosa significa? Significa che nel 1956 non si voleva che un film di quella rilevanza etica e di quella forza di denuncia, diventasse veicolo di informazione. Ma questo ritiro diplomatico, diventa colpa penale ‒ e io dico non soltanto disciplinare ‒ quando, a livello di chi deve e ha l’obbligo costituzionale di promuovere l’azione penale, non la promuove.
[L’«archiviazione provvisoria» dei fascicoli sulle stragi naziste tra 1946 e 1994]
Questi fascicoli hanno dormito i sonni di Aligi negli archivi della Procura Generale presso il Tribunale supremo, con la sovrapposizione su ogni faldone della scritta: «archiviazione provvisoria»; un istituto che non esiste, perché una azione penale può non essere promossa soltanto quando mancano le prove per identificare gli autori dei delitti, mentre, quando gli autori sono noti, come era il caso dei fascicoli di cui parliamo, l’archiviazione rappresenta sempre e soltanto l’omissione gravissima di una azione dovuta.
Queste archiviazioni sono state operate dal 1946 al 1994 sicuramente con il concerto tra il Procuratore generale presso il Tribunale supremo militare ‒ che non è titolare della azione penale, la quale compete ai singoli procuratori presso i Tribunali militari ‒ e i vari ministri della giustizia e della difesa.
Nella mia coscienza, nel mio quadro di riferimento etico, sarebbe dovuta, oggi, anche, una specifica indagine per accertare i nomi e i cognomi di tutti i responsabili, tanto ampio e grave è il quadro di illegalità posto in essere da loro.
Ci troviamo in presenza di una vera e propria crisi etica di istituzioni che hanno subordinato il loro dovere alle loro valutazioni politiche, gestendo in prima persona e direttamente la «politica», non di loro competenza, per favorire la ricostruzione ed i rapporti di mercato tra i vari paesi d’Europa, nel timore che la celebrazione dei processi potesse compromettere i rapporti economici tra «vincitori e vinti» di un tempo.
[La sentenza contro Saevecke]
Detto questo dico anche che questa crisi etica non è superata. Il dottor Pier Paolo Rivello ‒ Procuratore capo della Procura di Torino ‒ ha ricordato che sentenze come quella pronunciata di recente dal Tribunale militare di Torino a carico di Saevecke meriterebbero di essere portate a conoscenza del vasto pubblico, per quello che contengono di messaggio etico ‒ non dico di messaggio storico ‒ ma di messaggio etico, che è sempre connesso a una sentenza penale, quando i fatti presi in considerazione coinvolgono valori primari delle comunità nazionali.
In ordine a questo processo l’informazione è stata poca e scarna. La doverosa informazione da parte della stampa italiana è stata pressoché assente. Persino «L’Unità» e lo dico perché è l’assenza che più mi dilania, ma proprio perché più mi dilania non voglio avere l’ipocrisia di non ricordarlo ‒ non ha scritto del processo e della sua conclusione.
Noi dovremo, con le nostre scarne forze, sopperire a questa omissione di doverosa informazione. «Anpi Oggi», «Patria Indipendente», «L’Antifascista», «Triangolo Rosso» dovranno colmare i vuoti della informazione affinché perlomeno quelli che si riconoscono in noi sappiano compiutamente della sentenza finalmente pronunciata.
Questa sentenza ha oggi un grande valore. Se la sentenza come quella pronunciata nel mese di giugno dal Tribunale militare di Torino fosse stata pronunciata nel 1946 ‒ poniamo ‒ avrebbe avuto un altro valore: quello della condanna del responsabile di un grave delitto; ma non sarebbe stata portatrice di una serie di altri valori, di altre informazioni. Nelle sentenze, che sono «ordini di giustizia», il giudice deve realizzare la giustizia, cioè dichiarare la condotta criminosa presa in esame e comminare, per quella condotta, una condanna. Questo è il valore proprio, specifico della sentenza e questo sarebbe stato il valore che avrebbe avuto questa sentenza nel 1946. Ma dopo cinquant’anni e oltre, le sentenze che oggi scaturiscono da indagini su fatti tanto lontani hanno valori addizionali ‒ anche se non voluti, anche se non sono valori propri dell’azione giurisdizionale.
Ritengo che una sentenza come quella di Torino non solo condanna il responsabile di un grave crimine, ma ancora molte altre cose!
[Nel 1944 la patria non era morta]
Ci dice che nel 1944 la patria non era morta se è vero che tanti uomini e donne sentirono il bisogno, proprio in quel momento, di assumersi impegni di lotta che portavano addirittura il pericolo della morte.
La sentenza smentisce quegli storici che ci dicono: «l’8 settembre la patria è morta l’8 settembre la patria non è più rinata, le memorie si sono divise, gli italiani persero la loro identità che non si può ritrovare nelle vicende della Resistenza italiana».
Ebbene, io inviterei costoro che fanno ‒ essendo nati dopo la Resistenza ‒ siffatte «storiche» valutazioni a dirmi da quali elementi traggono queste loro congetture, che nulla hanno di storico.
Sui corpi straziati dei fucilati di Piazzale Loreto, massacrati da quelli della Muti per ordine di Saevecke, furono trovate fotografie di figli e di mogli, come su quelli degli impiccati sugli alberi di Bassano o di quelli assassinati della Benedicta, sulle quali, con grafia spezzata, questi martiri, prima di morire, scrissero «W L’ITALIA».
Dopo l’8 settembre ‒ ci dicono queste scritte ‒ la patria, distrutta per lo scempio retorico che il fascismo ne aveva fatto, degradandola a strumento di mobilitazione, per mandare i giovani a rapinare lontano, era rinata.
L’8 settembre 1943 la patria è nata ‒ non è morta, è nata ‒ e questi, che erano uomini diversi, dirigenti, operai, contadini, questi uomini che parlavano linguaggi diversi, che erano nati in città diverse, da Milano a Reggio Calabria e Palermo; questi uomini che venivano da tutta Italia trovarono dopo l’8 settembre, pensieri uniti: «Viva l’Italia», per la quale si sentirono di dare la vita.
E questo è già un valore nuovo che oggi può esprimere una sentenza che esamina quei fatti lontani.
[La rappresaglia non è un diritto]
Un altro grande valore esprimerà questa sentenza, quando, nella motivazione, spiegherà che la rappresaglia non esiste, che non è un diritto, perché uno Stato che ne occupa un altro, non ha diritto di uccidere i cittadini per incutere il terrore diffuso che induce all’obbedienza servile.
Coloro che scrivono ancora oggi che c’era un diritto di rappresaglia compiono servile compito politico che distorce la verità, che manipola la conoscenza.
[Gli armati in camicia nera al servizio dei nazisti]
La sentenza e i documenti di prova che nel processo sono stati raccolti smentiscono ciò che uno storico, De Felice, ha scritto, cioè che in effetti anche i fascisti sarebbero stati patrioti al pari dei partigiani, in quanto anche loro si sono battuti per salvare l’Italia, per preservarla da più feroci azioni tedesche.
Ebbene, in questo processo, è uscito che gli armati in camicia nera, la Muti e la guardia nazionale repubblicana, erano strutture alle dipendenze dei tedeschi; tant’è che il plotone di esecuzione che ha eseguito la fucilazione dei patrioti in Piazzale Loreto non è stato convocato dai comandanti della guardia nazionale repubblicana e della Muti, ma da Theo Saevecke.
Risulta dalla sentenza, che la Repubblica sociale italiana è stata soltanto una struttura di mascheramento e di supporto dell’occupazione tedesca, se è vero, come è vero, che le sue milizie politiche armate erano direttamente sottoposte al comando dell’Aussenkommando delle città occupate.
Il Procuratore Pier Paolo Rivello ha promosso un’altra azione nei confronti di Heghel, che è l’omologo di Saevecke in Milano: Saevecke era il comandante dell’Aussenkommando della Sicherheits, Heghel in Genova, alla Casa dello studente, era il Capo dell’Aussenkommando ligure della Sicherheits.
[La fucilazione alla Benedicta]
È iniziato il 26 maggio al Tribunale militare di Torino il processo a carico di costui, che è il responsabile della fucilazione alla Benedicta di 75 giovani.
Chi conosce la storia della Benedicta sa che non è neanche una pagina di storia gloriosa della lotta della Resistenza, perché i nazifascisti, nel corso di un rastrellamento, sono arrivati in una baita dove non c’erano uomini con i fucili, ma ragazzi che non avevano voluto presentarsi alla leva militare… Quindi non è che sono arrivati i baldi soldati della Monterosa o della Sicherheits e hanno avuto un combattimento nel quale hanno saputo piegare partigiani armati; lì c’erano ragazzi che non avevano armi; quindi li prendono e li fucilano. Ne fucilano 75 e ne deporteranno 100, che moriranno a Gusen e a Mauthausen; e altri 17 li fucileranno successivamente al Passo del Turchino e altri ancora saranno fucilati nei paesi intorno alla Benedicta. Questo a Pasqua del 1944. C’è poi un altro processo, sempre per la Liguria: quello per la fucilazione di 59 patrioti al Passo del Turchino; e in questo processo dovrebbe emergere una pagina molto significativa per la storia della nostra democrazia negli anni ’60. Quando furono fucilati i 59 patrioti al Passo del Turchino il Prefetto di Genova ‒ si chiamava BASILE ‒ l’uomo che, nel 1960 quando Tambroni, presidente del Consiglio, autorizza il Congresso del m.s.i. a Genova ‒ è chiamato a presiederlo. Basile, colui che aveva consentito il massacro del Passo del Turchino.
[Le sentenze aiutano a scrivere la storia]
Questa, che oggi viene scritta nelle sentenze, è storia!
Queste sentenze, nel loro insieme, danno la possibilità di superare l’equivoco in cui si sostiene che in Italia furono feroci solo le «SS».
Se queste vicende e tutte le vicende drammatiche e criminose dell’occupazione nazista, fossero state giudicate a tempo debito, noi avremmo avuto non solo un processo per Marzabotto, un processo per Vergato, uno per Sant’Anna di Stazzema, ma anche uno per Vinca, uno per Val Lucciole, uno per il Padule del Fucecchio, uno per Civitello, cioè per tutti quei paesi dove ci sono stati dei massacri. Ci saremmo resi conto che l’occupazione tedesca ha significato e non soltanto da parte dei nazisti, ma anche da parte della Wermacht, l’appropriazione delle riserve auree della Banca d’Italia, l’appropriazione delle derrate alimentari del Paese, la rapina dei nostri industriali, la deportazione di uomini. Ci saremmo resi conto ‒ e ce ne renderemo conto con i nuovi processi ‒ che l’occupazione fu terroristica, fu guerra di annientamento nei confronti di civili italiani. Questo noi dobbiamo finalmente capire, ma questo, oggi, possiamo capirlo soltanto attraverso l’azione della giustizia, che non persegue l’obiettivo di acclarare le verità storiche, ma che, nella misura in cui ricerca la verità nelle singole vicende che rappresentano ciascuna un delitto, consente di saldare una infinità di conoscenze e di trarne un giudizio puntuale e compiuto su quella che fu la vera natura della occupazione nazista del nostro Paese.
Emergerà come in Italia furono applicati i medesimi criteri di occupazione che sono stati applicati nei Balcani ed in Unione Sovietica; emergerà che in Italia sono stati mandati gli stessi reparti che erano stati mandati in quei paesi, cioè i comandi speciali per eliminare gli ebrei e gli avversari politici, per annientare terroristicamente la popolazione e per spogliare il Paese.
Anche se l’attività giurisdizionale non ha il compito di scrivere la storia, oggi la scrive, mentre perdura una crisi dei valori, una crisi etica nella informazione ed anche nelle istituzioni; che sembra abbiano perso qualsiasi capacità di confrontare le loro scelte alla scala dei valori del passato o di riferire la loro attività a scale nuove di valori resi noti.
In questa situazione le sentenze adempiono anche la funzione di mettere in luce le verità storiche, di offrire le conoscenze storiche che possono permettere giudizi più complessivi sulla situazione; dalla sentenza escono messaggi etici che contengono informazioni storiche sulle quali la memoria ‒ a tutte maiuscole ‒ può diventare veramente quell’anima che manca oggi nel nostro Paese.
Gianfranco Maris