Castano Primo, 16 dicembre 2019, ore 10.00. Seconda tappa del progetto didattico con l’istituto “Torno” di Castano Primo (MI) che prevede un incontro col prof. Massimo Castoldi e Lucia Massariello, figlia di Maria Arata, deportata nel campo di concentramento di Ravensbrück.
Maria Massariello Arata in una testimonianza della figlia Lucia tenuta a Nova milanese il 18 ottobre 1995:
Maria Arata
La deportazione
Specializzata in botanica, fu insegnante di scienze naturali presso il liceo Carducci di Milano e qui, come anche in università dove era assistente, svolgeva propaganda antifascista: organizzava incontri fra studenti e si occupava di raccogliere viveri e medicinali per gruppi partigiani grazie ai suoi rapporti con l’Istituto Sieroterapico Milanese. Era in contatto con altri coraggiosi insegnanti del liceo Carducci tra cui il professor Quintino Di Vona, fucilato a Inzago il 7 settembre 1944. Mia madre fu arrestata il 4 luglio 1944 e, dopo un breve periodo a San Vittore, fu inviata al campo di Bolzano e quindi a Ravensbrück, probabilmente nello stesso trasporto di cui fece parte Ida Desandré.
Da qui fu mandata in un campo di lavoro a Neu-Brandeburg a fabbricare aeroplani: essendo un’insegnante, non era capace di svolgere questo lavoro pesante, ma dovette presto imparare a suon di frusta. Rientrò in seguito nel campo di Ravensbrück dove, il 30 aprile 1945, fu liberata dai russi. Dopo la liberazione, fu anzitutto ricoverata in ospedale, dove le furono prestate molte attenzioni.
La liberazione
Il primo ottobre dello stesso anno, pochi mesi dopo la Liberazione, riprese l’insegnamento al liceo, pur non trovandosi nelle migliori condizioni fisiche e psicologiche. Ho avuto l’occasione di parlare con una delle allieve di quell’anno, che sapeva della sua prigionia. Ella mi raccontò come i ragazzi, talvolta, notassero dei momenti di crisi in cui la loro insegnante appariva assente, e fossero turbati da questo comportamento.
Nel 1946 mia madre si sposò. Era convinta di non poter avere figli a causa delle pratiche di sterilizzazione sperimentate sulle donne nel campo di Ravensbrück; si accostò al matrimonio considerandolo un’alta missione perché si unì ad un collega rimasto vedovo durante la guerra con due figli piccoli. In casa diceva sempre che, nel ricordo delle compagne decedute, il fatto di essere sopravvissuta assumeva un grandissimo valore e che, perciò, doveva impiegare al meglio la propria vita: per questo, oltre all’insegnamento, si dedicò con impegno alla famiglia che contava già due figli e dove ne nacquero – contrariamente alle sue aspettative per i motivi citati – ancora tre.
La memoria
Già nei primi anni successivi al ritorno dal campo di concentramento, mia madre annotò le esperienze vissute per timore di dimenticare i particolari degli anni di prigionia: era molto sentito in lei il dovere di tramandare una testimonianza precisa ed efficace, perché potesse rappresentare un insegnamento alle generazioni future. La sua vita era molto faticosa: c’erano la scuola, la casa, cinque figli e condizioni economiche non certo rosee dopo la guerra.
Quello che ricordo di lei era l’estrema serenità, l’ottimismo e la gioia di vivere. In effetti, dava l’impressione di godere di tutto, atteggiamento che penso possa riscontrarsi in quelle persone che, ad un passo dalla morte, hanno avuta salva la vita.
Similmente a quanto osservato da Lidia Rolfi, anch’io ricordo come a mia madre non fosse stato rivolto alcun invito a parlare ufficialmente della propria esperienza, ed anche a scuola nessuno se ne interessò molto; così, si confidò soprattutto con noi, che ci abituammo fin da piccoli ad ascoltare questi racconti drammatici, pensando che tutti i bambini sapessero queste cose o ne avessero almeno sentito parlare.
Crescemmo fra questi racconti, riportati senza alcun sentimento di astio e di odio, ma con una grande serenità. La nostra casa era inoltre frequentata da ex compagni di Lager, cosicché conoscemmo direttamente diverse persone citate nelle memorie di mia madre, ad esempio i componenti della famiglia del professo Di Vona, coi quali abbiamo avuto sempre ottimi rapporti. Vorrei ricordare alcuni aspetti del vissuto di mia madre in relazione ai suoi ricordi degli anni della guerra.
Con la lingua tedesca, ad esempio, aveva un rapporto ambivalente. Da un lato le dava fastidio, al mare, ascoltare la voce dei bagnanti tedeschi, e, dall’altro, ci svegliava al mattino della domenica pronunciando – con la consueta voce gioviale – il verbo “aufstehen” (alzarsi), con cui veniva svegliata durante la prigionia; altre volte diceva “schnell” (veloce). Ancor oggi non riesco a spiegarmi come potesse usare, nell’ambito familiare, queste parole che avrebbero dovuto – come infatti avveniva quando sentiva parlare dei tedeschi – farla inorridire.
Ricordo anche come fosse vietato, in casa nostra, cucinare carne alla griglia, e se per errore ne veniva bruciata un po’, ne era subito infastidita ed apriva le finestre: anche gli odori fanno parte del ricordo.
Un altro suo tipico atteggiamento era la repulsione verso qualunque gesto che le richiamasse la spoliazione subita nel Lager: ad esempio, durante un ricovero in ospedale – si era negli anni settanta – quindi ben lontano da quelli della prigionia – insistette per non mettersi in camicia da notte come tutti gli altri, sebbene i medici la riprendessero perché, al momento della visita, la trovavano vestita in modo non adatto all’esigenza del momento.
Due eventi sono per me molto importanti: il primo accadde nel 1969, quando la mamma volle portarci in pellegrinaggio a Ravensbrück.
Il ritorno a Ravensbrück
In quegli anni la città si trovava nella Repubblica Democratica Tedesca e perciò il viaggio fu reso più difficile dai permessi necessari al transito: lei, però, teneva molto al fatto che il marito ed i figli osservassero con i loro occhi il luogo della propria tortura, che sembrava aver rivisto con serenità d’animo.
Il ponte dei corvi
L’anno successivo, però, si ammalò e penso che la violenta emozione provata in quel viaggio possa esserne stata la causa. Il secondo evento – sicuramente il più importante è stato la malattia che colpì mia madre la quale, rendendosi conto di non avere più possibilità di guarigione, cominciò a dare una forma organica alle note e ai ricordi del proprio diario della deportazione.
L’impegno dedicato alla stesura di queste memorie, a mio parere, non fu motivato soltanto dalla sua forzata immobilità che le permetteva di scrivere con la calma che non aveva mai avuto, ma soprattutto dall’esigenza, fortemente sentita, di porre in evidenza l’evento fondamentale della sua vita, l’esperienza del Lager.
Tutti gli altri eventi della sua esistenza – il marito ed i figli che le stavano vicino – rimasero nell’ombra, e negli ultimi mesi di vita la vedemmo immersa in questi ricordi che riviveva intensamente, tanto che soffrivamo un poco – soprattutto mio padre – di questo estraniarsi.
Eravamo d’altro canto contenti che potesse realizzare ciò cui teneva tanto: la possibilità di tramandare la stesura del manoscritto, senza però aver potuto rileggerlo. Lo consegnammo alla casa editrice Mursia che pubblicò il libro cinque anni dopo la sua morte: per me è importante sapere che è stato scritto nel momento in cui vedeva vicina la propria fine, e lo considero il suo testamento morale.