Ancora a proposito sul tema dell’attentato di Via Rasella e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, recentemente oggetto di un articolo di Vittorio Feltri su Libero dal titolo “l’unico errore di La Russa è stato scusarsi”, pubblichiamo una nota a commento a cura di Floriana Maris, presidente della Fondazione Memoria della Deportazione.
“Sulle Fosse Ardeatine e le impudenti e vergognose dichiarazioni del capo di Governo, Giorgia Meloni, e del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, desidero portare il mio contributo di conoscenza alla vicenda storica.
Mio padre, ed in seguito anch’io, abbiamo rappresentato nei processi penali e civili che lo hanno visto parte Rosario Bentivegna, componente del Gruppo di Azione Patriottica (GAP) che condusse l’attacco partigiano di via Rasella.
L’attacco partigiano ebbe inizio in Roma alle 15,52 circa del 23 marzo 1944 e si risolse in pochi minuti.
La strage delle Ardeatine ebbe inizio tra le 13 e le 14 del 24 marzo (pressoché 22 ore dopo l’attacco di via Rasella).
Il comunicato della agenzia Stefani, che dava notizia dell’attacco partigiano condotto in via Rasella “da criminali comunisti badogliani” e che annunciavano che “per ogni soldato tedesco assassinato saranno fucilati 10 criminali comunisti-badogliani”, suggellava questa infamia con la terribile frase “quest’ordine è già stato eseguito”; e apparve sui giornali soltanto il 25 marzo alle ore 12 (per motivi di coprifuoco i giornali uscivano a quell’ora).
Il primo comunicato tedesco sulla vicenda apparve solo il 26 marzo, sempre alle ore 12 e sempre sui giornali.
Il manifesto ai partigiani con l’invito ad arrendersi o qualsiasi analogo invito non fu mai emesso dalle autorità naziste, italiane o tedesche che fossero. Ne fanno fede gli atti del processo Kappler, la deposizione del generale Kesselring al processo ai Gen. Maetizer e Von Mackensen (in W. Settinelli, Herbert Kappler, la verità sulle Fosse Ardeatine, vol. 2°, ed. l’Unità, aprile 1994), gli Atti e Documenti della S. Sede relativi alla seconda guerra mondiale, gennaio 1944 – luglio 1945, Città del Vaticano Libreria editrice vaticana 1980, pag. 189.
Kappler, nel corso del suo processo davanti al Tribunale Militare di Roma, dichiarò: “ho fatto ogni sforzo…per portare il massacro alla sua conclusione nel più breve tempo possibile. La rapidità era essenziale per due motivi: l’ordine del Fuhrer…esecuzione entro 24 ore. Più importante, però, era il timore che, se la cittadinanza di Roma avesse appreso che un eccidio stava per essere perpetrato nel suo territorio, nessuno avrebbe potuto prevedere l’intensità delle sue reazioni, i partigiani avrebbero potuto organizzare un attacco fulmineo. L’intera città avrebbe potuto insorgere. Per ragione di sicurezza, le esecuzioni dovevano essere tenute segrete finché non fossero state portate a termine”.
Le pronunce di tutti i livelli della Magistratura italiana sono unanimemente concordi nel riconoscere la legittimità dell’atto di guerra di via Rasella e i partigiani come “legittimi combattenti”. E sono ugualmente concordi che non sono riconducibili, nella strage delle Ardeatine, gli elementi di una legittima rappresaglia, ma, ai sensi del Codice Militare di Guerra e del Codice Penale, solo quelli di “omicidio continuato e aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà nei confronti di 335 prigionieri”.
Ma c’è di più. I Tribunali Militari Alleati, investiti del problema delle Ardeatine nel 1945 -1947, non solo non hanno ritenuto mai e in alcun modo di procedere contro i partigiani, ma, per quella strage, hanno condanno a morte (pena poi commutata in ergastolo) il Maresciallo Kesselring e i Gen. Maetizer e Von Mackenzen. Il Maresciallo Fon Von Keitel, condannato a morte per impiccagione a Norimberga, fra i capi di accusa che lo hanno portato alla condanna aveva anche la strage delle Ardeatine.
Questi processi non approdano soltanto ad una verità processuale, ma le prove rappresentative, storiche, documentali e testimoniali raccolte costituiscono una verità storica che resiste ad ogni forma di revisionismo e negazionismo.
“Adesso che le acque si sono calmate vorrei dire due parole, se non tre, a proposito sulla polemica scatenata dalle dichiarazioni di Ignazio La Russa sulla strage di via Rasella a Roma”. Questo l’incipit dell’articolo di Vittorio Feltri, apparso il 4 aprile scorso sul quotidiano “Libero”. Scrive Vittorio Feltri, a commento delle dichiarazioni del Presidente del Senato che egli “ha sbagliato non a divulgare la sua opinione contraria ai conformisti di sinistra, bensì a chiedere scusa per aver ecceduto nel suo commento….in democrazia qualsiasi opinione, pur discutibile, è lecita”. A prescindere che in democrazia non è lecito che chi occupa la seconda carica dello Stato non abbia un minimo di conoscenza e cultura storica e che tronfio di questa sua ignoranza – se di ignoranza si è trattato e non di una volontaria mistificazione dei fatti per denigrare un legittimo atto di guerra partigiana, contro un esercito straniero occupante – non senta neppure il dovere di informarsi prima di esporsi a falsi storici, ricordiamo, e in questo caso soprattutto a Vittorio Feltri, che su questi medesimi fatti ha riportato la condanna al pagamento, in favore di Rosario Bentivegna, del risarcimento del danno per diffamazione continuata (sentenza n. 1937/03, Corte di Appello di Milano, sezione II^ civ.), che il diritto di “opinione”, come scrive, in quanto strumento di civiltà e di progresso, non può trovare fondamento nella narrazione di fatti falsi. “I giudizi sulle vicende del passato remoto spettano agli storici” è vero, ma tali giudizi vanno rispettati. Quando non si rispetti la verità dei fatti, allorquando la critica, o la c.d. libertà di “opinione”, si fondano su episodi non veri o rievocati attraverso l’arbitrario inserimento di circostanze non vere, essa diviene un mero pretesto per manipolare le menti e le coscienze degli uomini.”